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Il silenzio vivo

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V. Kandinskij, Alcuni cerchi, olio su tela, 1926

Del silenzio hanno parlato musicisti, poeti, scrittori, filosofi e santi, elogiandone la bellezza, spiegando il motivo della sua importanza, da cosa fosse differenziato e perché ne abbiamo bisogno. Sembra che la musica ne sia assolutamente distinta, come un suo opposto poetico, la sua controparte. Eppure, non soltanto il silenzio è molto meno inerte di quello che si pensa, ma è parte essenziale, componente significante della dinamica sonora.

Il silenzio, come il freddo o il buio o altri fenomeni fisici, non può essere descritto positivamente (come qualcosa che è) ma necessariamente come un negativo (anche se si dice comunemente di “fare” silenzio!): un non-essere. “Questo,” scrive V. Jankélévitch (La musica e l’ineffabile, 1998) “che non è un minus esse, una degradazione o una rarefazione del rumore, un carattere privativo o negativo della dimensione sonora (come, per esempio, l’infermità di un uomo afono), non è neppure una positività all’inverso. È a suo modo pienezza, e pertanto veicolo di qualcos’altro […] come la litote non è inespressiva, ma allusiva, e “l’espressivo inespressivo” non è un’espressione minore ma nel suo genere un’eloquenza contenuta, così il silenzio non è un non-essere, ma altro dall’essere.” Il silenzio non ci appartiene. L’uomo pretenderebbe di possederlo, ma il silenzio si può solo cercare oppure, per paradosso, ascoltare. L’ascolto non porta a possedere il silenzio, ma a verificarne l’impossibilità di esistere. Il silenzio, in fondo, è fatto puramente di ascolto.

Esistono due grandi silenzi dai quali nasce ed emerge la musica. Uno è quello che precede un suono, che mette in connessione l’esecuzione con l’ascolto. V. Kandinskij (Lo spirituale nell’arte, 1910) immaginava il bianco

come un grande silenzio che ci sembra assoluto. […] È un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità. Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere.

Lo si può associare ad un foglio prima che l’artista vi tracci i primi segni, una tela che manca ancora dei suoi colori, ma che è pronta a riceverli in infinite forme. Quel tipo di silenzio che deve fermare il tempo, appropriarsi del suo scorrere e fermarlo per affermare la sua esistenza.

Come un nulla senza possibilità, come la morte del nulla dopo che il sole si è spento, come un eterno silenzio senza futuro e senza speranza, risuona dentro di noi il nero. […] È come il silenzio del corpo dopo la morte, dopo il congedo della vita. Esteriormente è il colore con minor suono: su uno sfondo nero qualsiasi colore, anche se ha un suono flebile, sembra forte e preciso.

Come il risuonare dell’ultima vibrazione che si spegne nel vuoto che sancisce la fine di una musica. Questo vuoto non è morto veramente: troppi echi riverberano dentro ogni animo sensibile che ha vissuto la musica. Più che un silenzio, è un tacere assorto.

La pausa, la reticenza (aposiopèsi, ellipsis, suspiratio in gergo linguistico-retorico) sono figure del silenzio: “il tacere”, “l’interruzione” sono tecniche che interrompono improvvisamente un discorso (anche musicale) quando un tema è già stato annunciato o avviato. L’effetto retorico è dato dal lasciare a mezzo l’espressione di un pensiero, facendone tuttavia intendere perfettamente gli impliciti sviluppi e le prevedibili conseguenze (B. M. Garavelli, Manuale di retorica, 2003). Se questo è possibile in una lingua, è molto più difficile poter prevedere in certa musica quello che ne seguirà. Proprio per questo un uso intensivo insinua una grande componente di imprevedibilità, moltiplicando l’attenzione e aggiungendo un notevole senso di suspense.

https://www.youtube.com/watch?v=xbItUMgDL4U

Un esempio nella musica barocca (che di retorica musicale redige decine di trattati) sono i frequenti “sospiri” patetici (suspiratio): l’aria di Ottavia “Addio Roma, addio patria” dal III atto de “L’incoronazione di Poppea” di C. Monteverdi, è un’aria lamentosa in cui la legittima sposa di Nerone esprime singhiozzando la pena che prova nell’essere costretta ad abbandonare ingiustamente la sua terra. La pausa, in questo caso, è al completo servizio della parola, funzionale ad una mimesis, una perfetta imitazione del testo. Il significato delle parole e delle frasi stesse esigevano e chiamavano all’interprete o all’ascoltatore l’uso della pausa, tanto più in un’opera destinata alla rappresentazione teatrale, dove tutto contribuiva alla trasmissione dei sentimenti patetici, che facevano piangere e sospirare il pubblico in sala.

https://www.youtube.com/watch?v=Z5Xjz6ZuVk0

La musica si adatta, aspetta, o addirittura si interrompe a totale servizio di un discorso testuale poetico, ma può avere altri effetti. Le sospensioni culminanti di Händel – la Gran Pausa – dopo un caricamento di tensione progressivo avviato verso la conclusione, sospendono il movimento del discorso e ritardano semplicemente l’attesa cadenza finale, creando in questa maniera un momento di massima attenzione (basta ascoltarsi l’epilogo del celeberrimo Alleluja dal Messiah HWV 56). È la furbesca tecnica di far rimanere sulle spine, con il fiato sospeso, un pubblico che pende dalle labbra della musica e che non attende altro che il finale. In questo apice l’ascoltatore può formulare qualsiasi ipotesi, e nel tempo in cui l’ultimo accordo rimane in sospeso nell’aria, la sua immaginazione si prepara a qualsiasi soluzione.

https://www.youtube.com/watch?v=p5favl2Qtx0

Beethoven (nel periodo più silenzioso della sua vita) riutilizza gli effetti delle G. P. per es. nello Scherzo della Nona sinfonia op. 125. “Bizzarre” definiva Massimo Mila (Lettura della nona sinfonia, 1977) queste continue alternanze di suono e silenzio, di musica e pause, “che costituisce una delle originalità di questo Scherzo”. Beethoven stesso ammise di ammirare la musica di Händel (di cui possedeva l’opera omnia, sulla quale studiava), per cui non è difficile spiegare l’origine di tali “bizzarrie”, ma anzi, si possono così giustificare come persistenze di formule antiche, riscoperte con nuovi significati e possibilità espressive. Il silenzio, tuttavia, serve ora a separare, a distinguere momenti diversi, e a frammentare i discorsi. L’autore ha trovato la necessità di staccare le parti, senza metterci dentro niente. Questi vuoti spiazzano l’ascoltatore, lo disorientano. Interrompendosi ex abrupto nei momenti più inaspettati, Beethoven sembra farsi burla delle consuetudini formali, “scherzando” (è il caso di dirlo) le aspettative del suo spettatore. Alcune sono puramente scenografiche, altre, come le cadenze, dividono alcune sezioni che danno la forma al brano (se notiamo, delle pause evidenziano gli elementi tematici più caratteristici, delle altre concludono intere sezioni della forma A – B – A tipica dello Scherzo, per esempio la fine dell’esposizione).

http://indavideo.hu/video/Cage_4_33

Come si può parlare del silenzio senza soffermarsi sull’artista che più di tutti vi si è concentrato? John Cage, da eclettico personaggio quale era, ha rivalutato profondamente la sua importanza, elevandolo alla stessa dignità della musica. Eseguito per la prima volta nel 1952, 4’33’’ il brano “per qualsiasi strumento o combinazione di strumenti”, richiede al musicista di preparare il necessario per l’esecuzione ma di non suonare il suo strumento per la durata indicata dal titolo di 4 minuti e 33 secondi. L’idea gli nacque dopo un’esperienza nella anechoic chamber all’Università di Harvard, una stanza completamente insonorizzata dove è eliminato ogni tipo di rumore. Al suo interno si accorse di avvertire comunque due suoni nelle orecchie: uno basso e continuo, e l’altro acuto, quasi come un fischio. Quando gli spiegarono che quelli che aveva sentito non erano altro che i suoni del suo corpo, della pressione sanguigna e del sistema nervoso, giunse alla conclusione che il silenzio assoluto non esista. A proposito sono nate ipotesi secondo le quali la durata del brano non fu una scelta casuale: 4 minuti e 33 secondi corrisponderebbe alla durata di 273 secondi in tutto. -273° Celsius è la misura dello zero assoluto (0° Kelvin) che è infatti la temperatura dove niente può sussistere, vibrare, disporre di energia vitale.

Il silenzio di Cage è un silenzio bianco, vivo e acceso, pronto ad aprirsi alla comprensione dei suoni. Per lui ciò che non è musica non si risolve in un nulla, ma in ciò che esiste, che spicca da questo vuoto che si è aperto in una ‘musica del reale’ (fatta di sussurri, fruscii, colpi di tosse, brusii, …). Non è tanto una provocazione su ciò che noi chiamiamo e consideriamo comunemente ‘musica’, poiché trasformare in arte ciò che non siamo abituati a considerare arte è la poetica artistica di Cage. Il silenzio (come il rumore) può essere parte della musica se lo si ascolta con l’intenzione di ascoltare musica. Diamo invece uno sguardo alla “partitura”.

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I tre movimenti di 4’33” di John Cage (1952)

In notazione musicale, ed in particolare nelle parti degli strumenti d’orchestra, TACET (latino per “tace”) indica che in quel particolare movimento lo strumento non suona. In questo caso non suona in nessuno, ma può suggerire che altri “suonino” nel frattempo, che altra musica stia suonando contemporaneamente. La musica di Cage molto spesso è una provocazione filosofica, che istiga a riflessioni che trascendono la natura fisica dei suoni. L’ascoltare diventa il soggetto più che la natura del silenzio, o la sua esistenza. Farci accorgere che siamo circondati da rumori a cui di solito non facciamo caso, che il nostro quotidiano è immerso continuamente in un ambiente ricco di suoni, era l’obiettivo essenziale dell’artista, e l’ha efficacemente evidenziato, portando nelle sale da concerto una nuova forma di ascolto.

http://www.dailymotion.com/video/x10yqx7_arvo-part-miserere-1989_music

Un ultimo esempio per concludere è il Miserere di Arvo Pärt del 1989. È facile associare alle parole di Kandinskij le impressioni che possono sorgere naturalmente ascoltando questa musica. L’austerità sacrale dei singoli suoni che emergono dal silenzio (un silenzio ieratico, da fondale d’oro), nello stile tintinnabuli inventato dal compositore estone. L’affascinante rintocco delle campane e la progressiva semplificazione della sua musica, basata sull’eliminazione del “superfluo” e dell’esagerazione, lo hanno condotto ad uno stadio di assoluta valorizzazione di elementi minimi.

Queste pause significano molto: seguono ciò che è stato detto prima e preparano quanto verrà. Ora, rimanere in silenzio può significare semplicemente respirare o (udire) il battito del cuore. Penso che dovremmo essere più sensibili alle pause e alla riflessione, ed evocare questa riflessione e questa condizione di stabilità nelle persone cui è destinata la nostra creazione” (A. Pärt in Dujka Smoje, “L’udibile e l’inudibile”, Enciclopedia della musica, Einaudi).

L’isolamento dei punti di colore separati che affiorano da un profondissimo abisso conferisce loro molto più significato e spessore, trasformando ogni azione in un gesto sacro, ogni suono indispensabile, ogni momento ricolmo di mistero. L’importanza formale del silenzio sta proprio nel valorizzare ciò che lo differenzia: uno spazio pronto ad accogliere e a distribuire architetture. Il silenzio è un luogo di organizzazione di eventi nel tempo, che conferma la musica come la più metafisica delle arti.

Ci si può accorgere di quanto sia mutata la relazione dei musicisti e dei compositori nei confronti del silenzio. Le stesse più palesi funzioni della musica si sono evolute: da dense di significato (quasi sempre compagne del testo) e non separate da un ruolo che ne giustificava l’utilizzo (la preghiera, la rappresentazione spettacolare, la declamazione poetica), si è via via liberata (come musica strumentale diventerà assoluta e universale con la sinfonia romantica) fino alla sua recente emancipazione da un ‘obbligo’ comunicativo, rinunciando a “dire qualcosa” a tutti i costi, accogliendo in sé il silenzio come sua parte legittima. La musica contemporanea ha fatto un uso innumerevole dei silenzi e dei limiti del suono, tendendo ad una concezione moderna, contemplativa dell’evento sonoro (cominciata con Debussy, e da Cage esposta programmaticamente).

Ci sarebbe stato molto altro da poter dire, e molti altri esempi da poter ascoltare, ma se questo argomento ha incontrato il vostro interesse non si può non suggerire la lettura di Mario Brunello, uno dei violoncellisti italiani più apprezzato al mondo: “Silenzio” (Il Mulino, 2014), una lettura ricca e poetica, che offre moltissimi spunti di riflessione e profonde considerazioni sulla musica, sull’arte e sulla vita.

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Le estasi dell’artista

Il musicista

Fra i praticanti di musica sarà giunto, presto o tardi, in un momento di ascolto o di studio, la sensazione assoluta che ciò che l’orecchio sta percependo in quel momento non siano solo suoni (mere vibrazioni nell’aria), ma piccoli frammenti di vita, emozioni, passioni esaltanti, gioia, euforia… Il gradino più accessibile è il sentirsi parte di un grande capolavoro. Se il nostro inconscio, volendosi approcciare ad un’opera di genio, la cui valutazione delle sue qualità artistiche (ritenute universalmente eccezionali) ci dimostra la nostra inadeguatezza e limitata finitezza (vedasi Sindrome di Stendhal) comincia sentirsi a disagio, non dobbiamo smettere di goderne solo per manifestare un presunto ossequio e una facile deferenza nei confronti dei grandi maestri. Anzi! La musica migliore è sempre quella che sentiamo ci racconti qualcosa, che ci sembra parli di noi e che ci è inspiegabilmente vicina e cara. Una volta saputo, l’autore lo possiamo anche dimenticare, perché da quell’istante quella musica è diventata nostra, ci migliora e ci fortifica ogni volta che ne sentiamo il bisogno, ed è sempre lì pronta per noi. Le pagine più belle possono anche non essere quelle più famose, possono essere sconosciute ai più, o note solo a noi stessi. Quello che conta è che ci procuri quel piacere e quell’ebbrezza di svuotamento che fa rinascere il vero Noi rinchiuso e soffocato nelle cupe profondità dell’animo. La musica è riconoscimento di se stessi, e chi ha veramente il potere di aiutarci in questo svelamento si conquista la fama e la gloria nel tempo.

Questo geniale compositore, nel momento in cui una musica, anche solo una melodia, gli si agita in testa, è distratto e inquieto fino a quando non riesce a fermarla in qualche modo. Se è lontano da un qualsiasi strumento la canticchia, la mastica, la mugugna, la rigira con mille variazioni nella sua mente, il più perfetto degli orecchi.  L’oblio è sempre in agguato, e chissà solo quante idee non sono state mai espresse perché risucchiate dalla memoria fallace prima solo di aver segnato il gambo di una nota. Quando, invece, ha davanti a sé i tasti bianchi e neri, si scatena freneticamente. Getta le mani alla ricerca del giusto accordo, del suono perfetto, l’esatta armonia. Le correzioni verranno dopo, prima bisogna assolutamente fermare il concetto, e la cosa non è così facile. Incurante, strimpella (perché ancora non suona), crea, progetta, organizza gli eventi, pianifica e fantastica sui suoni giusti che possono valorizzare al meglio questo o quel punto. Nella sua mente un’orchestra si è già riunita per le prove, e sapendo perfettamente cosa fare, suona solo per lui le sinfonie, i solenni trionfali o i vivaci allegretti, mentre lui deve preoccuparsi solo di far suonare ad altri quello che ha già pronto in testa. Far sentire l’inudibile, far ascoltare la propria idea, una parte del suo mondo, delle sue emozioni e della sua concreta esperienza. Si immagina allora di averli veramente lì davanti, gli orchestrali, che ai suoi cenni e ai suoi attacchi rispondono esattamente alla direzione del compositore. Per questo pare che all’esterno, per chi non ne è a conoscienza, egli sia preso da uno strano delirio che lo agita e gli fa muovere le braccia e le mani in modo scattoso e inconsulto. Incurante di tutti, sordo al mondo, si cura solo della sua musica, beandosi del rapimento che lo salva immaginariamente, e che, se davvero lo volesse, potrebbe non farlo finire mai… Ma ogni sforzo ha i suoi limiti, e a quel punto l’artista è sfinito, consumato, esausto; dopo aver cavato sangue da una rapa se ne esce una dolcissimo e prezioso miele dorato. È soggetto, il musicista, spesso a un lavoro (intellettivo, beninteso) faticoso, impegnativo e (per quanto non possa sembrare) anche duro, che occupa massicciamente l’attenzione e la concentrazione per lungo tempo, i cui risultati, però, lo ripagano grandemente con il giusto e onorevole rispetto che si deve a chi ci salva continuamente e gratuitamente dalle disgrazie e brutture della vita.

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